L’intervento si concentra sul nuovo sapere dei sentimenti e delle emozioni nell’ambiente ipertecnologizzato in cui viviamo e creiamo; esplora quindi quel coacervo di tensioni e ‘riflessioni’ che scaturiscono tra l’umano e il tecnologico nella sfera più fuggevole e impalpabile degli affetti. In una cultura dell’ipermediazione, persino la vita e l’identità sembrano acquisire i caratteri di complesse interfacce tra dimensioni processuali sempre più integrate: quella umana – emotiva ed esperienziale – e quella tecnologica – eminentemente replicativa. Ma che succede quando un sistema operativo che non ha una sua ‘faccia’ o ‘persona’ comincia a ‘mostrare’ una sua ‘personalità’, seppur semplicemente captando, ‘incorporando’ e replicando (quindi ‘impersonando’ secondo il principio della performatività come ‘comportamento recuperato’ – Schechner, 1985) caratteristiche identitarie e culturali di colui/colei che interagisce con esso? Inoltre, che una macchina possa mostrare una personalità che sembra tanto più il frutto di sofisticati processi di ‘intelligenza connettiva’ (De Kerckhove, 1997) significa anche che possa arrivare a ‘provare’ delle emozioni? A queste domande sembrano oggi voler rispondere sofisticate produzioni e sperimentazioni mediali. Tra di esse, l’inquietante serie televisiva britannica Black Mirror (2013), scritta e diretta da Charlie Brooker, o il progetto creativo americano Captivated by ‘Her’ (“How can human emotions inspire new interactions with technology and each other?” – http://captivatedbyher.vice.com/) ispirato al film Her (2013) di Spike Jonze, e come il film teso a indagare il grado di intimità che può raggiungere il rapporto tra intelligenza umana e intelligenza artificiale e la rilevanza della performance del corpo (concreto e materico, quasi ingombrante, ma soprattutto imperfetto) in un mondo in cui le performance sono sempre più assimilabili a smaterializzate (e sempre più perfezionate) ‘prestazioni’ tecnologiche (McKenzie, 2001).

“Emozioni, tecnologia, teoria della performance”

ESPOSITO, Lucia
2015-01-01

Abstract

L’intervento si concentra sul nuovo sapere dei sentimenti e delle emozioni nell’ambiente ipertecnologizzato in cui viviamo e creiamo; esplora quindi quel coacervo di tensioni e ‘riflessioni’ che scaturiscono tra l’umano e il tecnologico nella sfera più fuggevole e impalpabile degli affetti. In una cultura dell’ipermediazione, persino la vita e l’identità sembrano acquisire i caratteri di complesse interfacce tra dimensioni processuali sempre più integrate: quella umana – emotiva ed esperienziale – e quella tecnologica – eminentemente replicativa. Ma che succede quando un sistema operativo che non ha una sua ‘faccia’ o ‘persona’ comincia a ‘mostrare’ una sua ‘personalità’, seppur semplicemente captando, ‘incorporando’ e replicando (quindi ‘impersonando’ secondo il principio della performatività come ‘comportamento recuperato’ – Schechner, 1985) caratteristiche identitarie e culturali di colui/colei che interagisce con esso? Inoltre, che una macchina possa mostrare una personalità che sembra tanto più il frutto di sofisticati processi di ‘intelligenza connettiva’ (De Kerckhove, 1997) significa anche che possa arrivare a ‘provare’ delle emozioni? A queste domande sembrano oggi voler rispondere sofisticate produzioni e sperimentazioni mediali. Tra di esse, l’inquietante serie televisiva britannica Black Mirror (2013), scritta e diretta da Charlie Brooker, o il progetto creativo americano Captivated by ‘Her’ (“How can human emotions inspire new interactions with technology and each other?” – http://captivatedbyher.vice.com/) ispirato al film Her (2013) di Spike Jonze, e come il film teso a indagare il grado di intimità che può raggiungere il rapporto tra intelligenza umana e intelligenza artificiale e la rilevanza della performance del corpo (concreto e materico, quasi ingombrante, ma soprattutto imperfetto) in un mondo in cui le performance sono sempre più assimilabili a smaterializzate (e sempre più perfezionate) ‘prestazioni’ tecnologiche (McKenzie, 2001).
2015
978-88-6458-151-4
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