Al tempo di Francesco d’Assisi la devozione verso la Vergine Maria era intimamente professata dai pellegrini. Crescendo in tale contesto e spinto dalla grande ammirazione per il ruolo svolto da Maria di Nazareth nel mistero dell’incarnazione, i biografi francescani narrano della profonda preghiera e meditazione di Francesco sul mistero della Madonna, la cui venerazione non si riduceva per l’assisiate a mere forme di devozione. Tale credo ha influenzato in maniera determinante l’iconografia legata al Santo che in epoca moderna, da Roma a Venezia – in particolare tra il XVI e XVII secolo –, ha fortemente caratterizzato un modello di pala d’altare legato alla gestualità del santo di Assisi proteso verso la Vergine, dell’atto di accogliere Cristo Bambino tra le mani. Lo slancio di San Francesco, vissuto non soltanto con le braccia ma con l’intero corpo e con lo sguardo, è dipinto dai pittori del Seicento con una sensibilità costante, a questi comune indipendentemente dal contesto geografico di provenienza. Se la fonte di ispirazione per la pratica artistica può immaginarsi comune e orbitante tra il Liber conformitatus, il De cognatione sancti Francisci e gli Annales Minorum, è un prezioso unicum l’opera di Francesco Ruschi per la chiesa di San Pietro di Castello a Venezia, dove la figura di San Francesco è distante dalla commozione dipinta dai pittori contemporanei. È lecito in tale contesto, ponendo l’opera a confronto con diversi pezzi coevi, come l’esemplare Cristo Crocifisso e i santi Lorenzo, Domenico, Francesco e Bernardo di Matteo Ponzone a San Cassiano Martire, porsi l’interrogativo del perché, a discrezione della committenza – e forse condizionato dalla chiesa controriformata – l’artista romano abbia modificato l’iconografia del Santo, dipingendolo in torsione, vestito dell’abito cappuccino, nell’atto di toccare Gesù con la mano sinistra, mentre indica, con la destra, il piede del Bambino poggiato sulle stigmate e volge lo sguardo verso il basso, stranamente assente. Come nell’opera di Ponzone, Ruschi descrive il santo in veste cappuccina, segno di una eredità romana dove al tramonto del caravaggismo, il poverello d’Assisi veniva usualmente dipinto con l’identità della regola. Quasi inedito e pressoché originale è però tale attributo per il territorio lagunare del XVII secolo, dove oltre ai pezzi sopracitati, è molto raro rinvenire San Francesco in vesti cappuccine. Sebbene la prima sede a Venezia si conformò già nel 1536 in Santa Maria degli Angeli alla Giudecca, e nonostante l’azione di predicazione e di assistenza agli appestati portò ai frati cappuccini l’affidamento da parte dello Stato la basilica votiva del Redentore, il vestito dell’ordine non ebbe, eccetto qualche singolare prototipo, fama e diffusione nella pittura degli artisti veneti. A tale mancanza sopperirono i forestieri come Ruschi, che da Roma in laguna incentivarono l’evoluzione dell’iconografia cappuccina attraverso le vesti del santo, sviluppando in contemporanea una tipologia iconografica nuova, diversa dai caravaggeschi – Tanzio Da Varallo, Orazio Gentileschi, Fabrizio Santafede –, distante dai pittori classicisti – Francesco Albani –, e dalle prime aperture barocche – Pietro Berrettini – della penisola. Forme, dunque, sommate al costume e alla spiritualità della Serenissima, dove nonostante le opere dell’ordine apportassero lieti benefici al popolo, la presenza sul territorio non poté frenare l’attrito con la Santa Sede. In questo e in molti correlati, è possibile rinvenire uno dei motivi di tale sfortuna iconografica nel Seicento veneziano.
Sulla fortuna cappuccina a Venezia: proposte per Francesco Ruschi a San Pietro di Castello
Martina Leone
In corso di stampa
Abstract
Al tempo di Francesco d’Assisi la devozione verso la Vergine Maria era intimamente professata dai pellegrini. Crescendo in tale contesto e spinto dalla grande ammirazione per il ruolo svolto da Maria di Nazareth nel mistero dell’incarnazione, i biografi francescani narrano della profonda preghiera e meditazione di Francesco sul mistero della Madonna, la cui venerazione non si riduceva per l’assisiate a mere forme di devozione. Tale credo ha influenzato in maniera determinante l’iconografia legata al Santo che in epoca moderna, da Roma a Venezia – in particolare tra il XVI e XVII secolo –, ha fortemente caratterizzato un modello di pala d’altare legato alla gestualità del santo di Assisi proteso verso la Vergine, dell’atto di accogliere Cristo Bambino tra le mani. Lo slancio di San Francesco, vissuto non soltanto con le braccia ma con l’intero corpo e con lo sguardo, è dipinto dai pittori del Seicento con una sensibilità costante, a questi comune indipendentemente dal contesto geografico di provenienza. Se la fonte di ispirazione per la pratica artistica può immaginarsi comune e orbitante tra il Liber conformitatus, il De cognatione sancti Francisci e gli Annales Minorum, è un prezioso unicum l’opera di Francesco Ruschi per la chiesa di San Pietro di Castello a Venezia, dove la figura di San Francesco è distante dalla commozione dipinta dai pittori contemporanei. È lecito in tale contesto, ponendo l’opera a confronto con diversi pezzi coevi, come l’esemplare Cristo Crocifisso e i santi Lorenzo, Domenico, Francesco e Bernardo di Matteo Ponzone a San Cassiano Martire, porsi l’interrogativo del perché, a discrezione della committenza – e forse condizionato dalla chiesa controriformata – l’artista romano abbia modificato l’iconografia del Santo, dipingendolo in torsione, vestito dell’abito cappuccino, nell’atto di toccare Gesù con la mano sinistra, mentre indica, con la destra, il piede del Bambino poggiato sulle stigmate e volge lo sguardo verso il basso, stranamente assente. Come nell’opera di Ponzone, Ruschi descrive il santo in veste cappuccina, segno di una eredità romana dove al tramonto del caravaggismo, il poverello d’Assisi veniva usualmente dipinto con l’identità della regola. Quasi inedito e pressoché originale è però tale attributo per il territorio lagunare del XVII secolo, dove oltre ai pezzi sopracitati, è molto raro rinvenire San Francesco in vesti cappuccine. Sebbene la prima sede a Venezia si conformò già nel 1536 in Santa Maria degli Angeli alla Giudecca, e nonostante l’azione di predicazione e di assistenza agli appestati portò ai frati cappuccini l’affidamento da parte dello Stato la basilica votiva del Redentore, il vestito dell’ordine non ebbe, eccetto qualche singolare prototipo, fama e diffusione nella pittura degli artisti veneti. A tale mancanza sopperirono i forestieri come Ruschi, che da Roma in laguna incentivarono l’evoluzione dell’iconografia cappuccina attraverso le vesti del santo, sviluppando in contemporanea una tipologia iconografica nuova, diversa dai caravaggeschi – Tanzio Da Varallo, Orazio Gentileschi, Fabrizio Santafede –, distante dai pittori classicisti – Francesco Albani –, e dalle prime aperture barocche – Pietro Berrettini – della penisola. Forme, dunque, sommate al costume e alla spiritualità della Serenissima, dove nonostante le opere dell’ordine apportassero lieti benefici al popolo, la presenza sul territorio non poté frenare l’attrito con la Santa Sede. In questo e in molti correlati, è possibile rinvenire uno dei motivi di tale sfortuna iconografica nel Seicento veneziano.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.