Quali sono le basi giuridiche che consentono di affermare che il riconoscimento della persona è un limite che può essere imposto alla libertà di abbigliarsi nel modo suggerito dalla propria cultura, dalla propria religione (o dalla percezione che se ne ha), o dalla propria personalità? E in quale misura questo discorso è influenzato dalla irrazionalità della paura del terrorismo e delle culture che ad esso vengono associate?L’art. 85 del TULPS del 1931 prevedeva originariamente un illecito penale (la depenalizzazione è del 1981) per il fatto del mascheramento e la giurisprudenza (precedente alla depenalizzazione) mostra che la norma era applicata nei casi di travisamento dei connotati della persona per celarne essenzialmente il genere. L’art. 5 della legge n. 152 del 1975 (la c.d. legge Reale) risale invece agli anni della lotta al terrorismo politico e degli scontri di piazza fra manifestanti e forze dell’ordine. Il riferimento all’uso di caschi protettivi è chiarissimo in questo senso, così come la norma non contiene un divieto assoluto e prevede esplicitamente che vi possa essere un “giustificato motivo” per assumere comportamenti che non consentano di essere riconosciuti in pubblico. Il legislatore, nell’emergenza del terrorismo di matrice islamica, ha voluto dare un segnale sulla pericolosità dell’utilizzo di forme di mascheramento, cercando però di non sbilanciarsi troppo sul pericolo che può derivare dalla presenza di donne abbigliate con burqa o niqab in luoghi pubblici. In occasione della conversione in legge del decreto antiterrorismo presentato dal Governo nel luglio del 2005 il Parlamento ha introdotto un emendamento con cui le pene previste dalla legge Reale sono state raddoppiate (ora sono stabiliti l’arresto da uno a due anni e l’ammenda da 1.000 a 2.000 euro). Sfugge davvero la logica di un intervento legislativo di questo genere. Anche se forse il suo senso può essere recuperato sul piano della strategia comunicativa del Governo.Tanto la tutela della dignità della persona (pur con le incertezze legate alla sua definizione) quanto la valorizzazione di rapporti sociali “trasparenti” sono valori degni di un significativo favore, non sembra però ragionevole che di fronte all’esercizio di un diritto (la libertà di abbigliamento) costituzionalmente tutelato si possano far prevalere le esigenze della cultura e della sensibilità della maggioranza a discapito dei diritti dell’individuo. E insieme alle esigenze culturali della maggioranza non si può negare che, indirettamente, verrebbero prese in considerazione anche le sue paure.[...]
L’incidenza della lotta al terrorismo sui simboli e le espressioni della religiosità
GRATTERI, Andrea
2009-01-01
Abstract
Quali sono le basi giuridiche che consentono di affermare che il riconoscimento della persona è un limite che può essere imposto alla libertà di abbigliarsi nel modo suggerito dalla propria cultura, dalla propria religione (o dalla percezione che se ne ha), o dalla propria personalità? E in quale misura questo discorso è influenzato dalla irrazionalità della paura del terrorismo e delle culture che ad esso vengono associate?L’art. 85 del TULPS del 1931 prevedeva originariamente un illecito penale (la depenalizzazione è del 1981) per il fatto del mascheramento e la giurisprudenza (precedente alla depenalizzazione) mostra che la norma era applicata nei casi di travisamento dei connotati della persona per celarne essenzialmente il genere. L’art. 5 della legge n. 152 del 1975 (la c.d. legge Reale) risale invece agli anni della lotta al terrorismo politico e degli scontri di piazza fra manifestanti e forze dell’ordine. Il riferimento all’uso di caschi protettivi è chiarissimo in questo senso, così come la norma non contiene un divieto assoluto e prevede esplicitamente che vi possa essere un “giustificato motivo” per assumere comportamenti che non consentano di essere riconosciuti in pubblico. Il legislatore, nell’emergenza del terrorismo di matrice islamica, ha voluto dare un segnale sulla pericolosità dell’utilizzo di forme di mascheramento, cercando però di non sbilanciarsi troppo sul pericolo che può derivare dalla presenza di donne abbigliate con burqa o niqab in luoghi pubblici. In occasione della conversione in legge del decreto antiterrorismo presentato dal Governo nel luglio del 2005 il Parlamento ha introdotto un emendamento con cui le pene previste dalla legge Reale sono state raddoppiate (ora sono stabiliti l’arresto da uno a due anni e l’ammenda da 1.000 a 2.000 euro). Sfugge davvero la logica di un intervento legislativo di questo genere. Anche se forse il suo senso può essere recuperato sul piano della strategia comunicativa del Governo.Tanto la tutela della dignità della persona (pur con le incertezze legate alla sua definizione) quanto la valorizzazione di rapporti sociali “trasparenti” sono valori degni di un significativo favore, non sembra però ragionevole che di fronte all’esercizio di un diritto (la libertà di abbigliamento) costituzionalmente tutelato si possano far prevalere le esigenze della cultura e della sensibilità della maggioranza a discapito dei diritti dell’individuo. E insieme alle esigenze culturali della maggioranza non si può negare che, indirettamente, verrebbero prese in considerazione anche le sue paure.[...]I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.