Gli anni Settanta sono un periodo frammentato e convulso, scandito da fasi brevi e quindi non inscrivibile in un’unica categoria periodizzante. Anche la fotografia di quegli anni è difficilmente identificabile al di fuori della semplificazione canonica di “fotografia dei movimenti”: essa è piuttosto il risultato di un fenomeno di lungo periodo, in cui si può identificare un mainstream visuale della grande stampa popolare, che traghetta l’italiano del boom dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, e una fotografia “impegnata” molto articolata al suo interno, che a partire dallo sguardo “umanista” del fotogiornalismo storico giunge a una identificazione con le istanze della contestazione. A questo si deve aggiungere una frammentazione del mestiere dovuta alle trasformazioni dell’industria culturale e l’affermazione di un individualismo fotografico che sembra in contraddizione con il collettivismo dei tempi. Sono gli anni Sessanta, fino al 1968, il vero terreno di coltura della trasformazione della fotografia giornalistica, anni che non hanno ancora conosciuto le nuove forme della politica. Di conseguenza, forse l’aspetto più rilevante della fotografia degli anni Settanta non è quello politico, ma uno sguardo nuovo sulla società che è allo stesso tempo erede di quello del fotogiornalismo storico. Anche la fotografia dei movimenti del resto è una categoria a sua volta piuttosto indefinita. Se l’immagine è al servizio della lotta, quanto la fotografia è stata usata come pura documentazione mimetica e quanto il suo uso ha comportato un discorso sulla forma? Certamente il passaggio dallo spontaneismo sessantottesco all’irrigidimento ideologico successivo non ha giovato allo sviluppo di una fotografia chiaramente definibile nell’ambito dei movimenti. Per un’analisi dei media è importante intendersi sulla periodizzazione, a partire da quella della “grande storia”: prima del 1968 si manifesta una cultura giovanile estremamente vitale che viene nel complesso sottovalutata dalla stampa popolare e dalla fotografia; seguono gli “anni 68”, cioè il breve periodo di entusiasmo collettivo che assume forme culturali e politiche e tenta la fusione con il movimento operaio; ma già tra il 1973-74 cala la cortina della violenza, i movimenti di irrigidiscono in forme politiche spesso dogmatiche, e lentamente si passa dal collettivo al “personale”; la deriva terroristica accelera il passaggio (o forse facilita il ritorno) a un disimpegno che presto diventa ossessione per un benessere più o meno reale. È in questo contesto che va analizzata anche la fotografia di informazione.

Umanesimo partigiano. Il fotogiornalismo italiano al passaggio tra gli anni Sessanta e Settanta

Gabriele D'Autilia
2020-01-01

Abstract

Gli anni Settanta sono un periodo frammentato e convulso, scandito da fasi brevi e quindi non inscrivibile in un’unica categoria periodizzante. Anche la fotografia di quegli anni è difficilmente identificabile al di fuori della semplificazione canonica di “fotografia dei movimenti”: essa è piuttosto il risultato di un fenomeno di lungo periodo, in cui si può identificare un mainstream visuale della grande stampa popolare, che traghetta l’italiano del boom dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, e una fotografia “impegnata” molto articolata al suo interno, che a partire dallo sguardo “umanista” del fotogiornalismo storico giunge a una identificazione con le istanze della contestazione. A questo si deve aggiungere una frammentazione del mestiere dovuta alle trasformazioni dell’industria culturale e l’affermazione di un individualismo fotografico che sembra in contraddizione con il collettivismo dei tempi. Sono gli anni Sessanta, fino al 1968, il vero terreno di coltura della trasformazione della fotografia giornalistica, anni che non hanno ancora conosciuto le nuove forme della politica. Di conseguenza, forse l’aspetto più rilevante della fotografia degli anni Settanta non è quello politico, ma uno sguardo nuovo sulla società che è allo stesso tempo erede di quello del fotogiornalismo storico. Anche la fotografia dei movimenti del resto è una categoria a sua volta piuttosto indefinita. Se l’immagine è al servizio della lotta, quanto la fotografia è stata usata come pura documentazione mimetica e quanto il suo uso ha comportato un discorso sulla forma? Certamente il passaggio dallo spontaneismo sessantottesco all’irrigidimento ideologico successivo non ha giovato allo sviluppo di una fotografia chiaramente definibile nell’ambito dei movimenti. Per un’analisi dei media è importante intendersi sulla periodizzazione, a partire da quella della “grande storia”: prima del 1968 si manifesta una cultura giovanile estremamente vitale che viene nel complesso sottovalutata dalla stampa popolare e dalla fotografia; seguono gli “anni 68”, cioè il breve periodo di entusiasmo collettivo che assume forme culturali e politiche e tenta la fusione con il movimento operaio; ma già tra il 1973-74 cala la cortina della violenza, i movimenti di irrigidiscono in forme politiche spesso dogmatiche, e lentamente si passa dal collettivo al “personale”; la deriva terroristica accelera il passaggio (o forse facilita il ritorno) a un disimpegno che presto diventa ossessione per un benessere più o meno reale. È in questo contesto che va analizzata anche la fotografia di informazione.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11575/111171
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