La musica è prassi, ricezione e teoria. I filosofi classici, e con loro Gioseffo Zarlino (1517 ca. – 1590) principe dei teorici del Rinascimento, erano consapevoli che nel comporre e nel percepire musica non tutto fosse riconducibile alle proporzioni e ai rapporti misurabili di cui la musica è specchio e conseguenza: «nei numeri fusse un non so che di divino» [Zarlino 1558]. Sino a tutto il Cinquecento, ammettere l’esistenza del «non so che», quale fioco riflesso di un’irraggiungibile perfezione, talvolta rivelata dagli effetti prodotti dalla musica sull’udito, non era indice di abdicazione dalle facoltà raziocinanti, ma costituiva lo sprone alla ricerca da parte del «Musico perfetto» [Zarlino 1589, 27] a indagare le ragioni di quell’effetto indeterminato per trovare soluzioni tali da renderlo osservabile, prevedibile e, almeno in parte, governabile. Dopo aver collocato la teorizzazione del concetto di je ne sai quoi tra XVII e XVIII secolo e averne attribuito la paternità a padre Dominique Bouhours (1628 -1702), gli storici del pensiero hanno studiato la sua ‘preistoria’ nell’antichità e nel Rinascimento. È stata censita la presenza del concetto in Dante, Petrarca e Boccaccio, è stato esplorato il suo uso rinascimentale nelle definizioni tecniche della lingua, della bellezza femminile [Fiorenzuola 1532 ca.], della pittura [Dolce 1557], dell’amore [Varchi 1543] e del bon ton [Castiglione 1528]. È stato anche osservato l’infittirsi dell’uso del «non so che» nella poesia di Ludovico Ariosto e soprattutto in quella di Torquato Tasso (Gerusalemme liberata, Aminta). Richiamando la centralità dei concetti rinascimentali di discrezione [Lomazzo 1590], di genio, di ingegno, di grazia e di sprezzatura, virtù senza le quali nessuna scienza e nessuna pratica possono manifestarsi appieno, Bouhours [1671] si è spinto a teorizzare l’origine italiana del je ne sais quoi. Sparse nelle lettere, nei testi poetici, negli scritti teorici e polemici, le tracce di questo percorso intellettuale sono evidenti anche nell’esperienza della ricezione, della produzione e della teoria musicale premoderna. Nelle opere teoriche di Zarlino, che di quel periodo costituiscono la summa, vi sono numerose attestazioni del «non so che», che attendono di essere radunate e interpretate. Da tale angolatura prospettica inedita, i suoi scritti offrono un ulteriore punto di osservazione sui mutamenti che andavano annunciando la fine del Rinascimento.

Il ‘non so che’ in Zarlino

Besutti P.
2022-01-01

Abstract

La musica è prassi, ricezione e teoria. I filosofi classici, e con loro Gioseffo Zarlino (1517 ca. – 1590) principe dei teorici del Rinascimento, erano consapevoli che nel comporre e nel percepire musica non tutto fosse riconducibile alle proporzioni e ai rapporti misurabili di cui la musica è specchio e conseguenza: «nei numeri fusse un non so che di divino» [Zarlino 1558]. Sino a tutto il Cinquecento, ammettere l’esistenza del «non so che», quale fioco riflesso di un’irraggiungibile perfezione, talvolta rivelata dagli effetti prodotti dalla musica sull’udito, non era indice di abdicazione dalle facoltà raziocinanti, ma costituiva lo sprone alla ricerca da parte del «Musico perfetto» [Zarlino 1589, 27] a indagare le ragioni di quell’effetto indeterminato per trovare soluzioni tali da renderlo osservabile, prevedibile e, almeno in parte, governabile. Dopo aver collocato la teorizzazione del concetto di je ne sai quoi tra XVII e XVIII secolo e averne attribuito la paternità a padre Dominique Bouhours (1628 -1702), gli storici del pensiero hanno studiato la sua ‘preistoria’ nell’antichità e nel Rinascimento. È stata censita la presenza del concetto in Dante, Petrarca e Boccaccio, è stato esplorato il suo uso rinascimentale nelle definizioni tecniche della lingua, della bellezza femminile [Fiorenzuola 1532 ca.], della pittura [Dolce 1557], dell’amore [Varchi 1543] e del bon ton [Castiglione 1528]. È stato anche osservato l’infittirsi dell’uso del «non so che» nella poesia di Ludovico Ariosto e soprattutto in quella di Torquato Tasso (Gerusalemme liberata, Aminta). Richiamando la centralità dei concetti rinascimentali di discrezione [Lomazzo 1590], di genio, di ingegno, di grazia e di sprezzatura, virtù senza le quali nessuna scienza e nessuna pratica possono manifestarsi appieno, Bouhours [1671] si è spinto a teorizzare l’origine italiana del je ne sais quoi. Sparse nelle lettere, nei testi poetici, negli scritti teorici e polemici, le tracce di questo percorso intellettuale sono evidenti anche nell’esperienza della ricezione, della produzione e della teoria musicale premoderna. Nelle opere teoriche di Zarlino, che di quel periodo costituiscono la summa, vi sono numerose attestazioni del «non so che», che attendono di essere radunate e interpretate. Da tale angolatura prospettica inedita, i suoi scritti offrono un ulteriore punto di osservazione sui mutamenti che andavano annunciando la fine del Rinascimento.
2022
978-8-875-52067-0
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11575/103349
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