Il saggio parte dalla considerazione di una inesorabile, sebbene forse non imminente, dissoluzione dei confini disciplinari negli studi umanistici; da cui perciò la necessità di costruire un paradigma post-disciplinare. La costellazione concettuale al centro di questo movimento, a mio avviso, ruota attorno alla (controversa) nozione di performance. Circostanza del resto lucidamente intuita da Jon McKenzie, sulla scia di Foucault: «[…] performance will be to the twentieth and twenty-first centuries what discipline was to eighteenth and nineteenth, that is, an onto-historical formation of power and knowledge» (McKenzie 2001. A un intervistatore che osservava che può essere difficile comprendere la differenza tra Performance Studies e Cultural Studies, Richard Schechner (senza resistere alla tentazione di citare Derrida) ha articolato una interessante risposta che non dovrebbe essere ridotta alla dimensione di uno slogan (ma lo faccio): «[…] Cultural Studies is very textually driven, Performance Studies is very behavior driven» (Schechner 2013). Concordo pienamente, ma la differenza non ha alcuna ragione “scientifica” per trasformarsi in contrapposizione (ancora Schechner: «I think that these differences are in the bad sense academic»). Il compito da affrontare, per gli umanisti tutti, oggi è: esplorare il passaggio, nell'apparato del linguaggio, dell'espressione e della conoscenza, dall'oralità (orality) alla scrittura (literacy) e dalla scrittura alla electracy (ho adattato questa frase da una affermazione di Gregory Ulmer, professore presso il dipartimento di inglese dell’Università della Florida, nonché maestro di McKenzie). Electracy, secondo Ulmer, è per i media digitali quello che literacy è (stato) per la scrittura. Se già per literacy la traduzione in italiano non è priva di problemi (“alfabetizzazione” e “scrittura” non ne sono perfetti equivalenti), servirà grande fantasia per trovare/inventare una parola idonea per electracy (proviamo con elettracità?). A proposito: come si traduce performance? Il giovane filologo Nietzsche invitava i filologi (che lo espulsero in aeternum dalla comunità quando pubblicò La nascita della tragedia) ad andare a lezione dagli etnologi; noi non abbiamo prestato sufficiente attenzione all’avviso di McLuhan il quale nel primo capoverso di The Gutenberg Galaxy dice che il suo saggio «è per molti versi complementare al libro di Albert B. Lord, The Singer of Tales» (Lord è stato allievo e collaboratore di Milman Parry, il filologo americano che per primo sostenne la tesi della natura orale e “formulaica” dell’epica omerica). Come ci ha meritoriamente ricordato Gabriele Frasca, nell’era digitale è semmai la “lettera” che muore, non l’“arte del discorso” (ma la prima asserzione non è neppure così vera: la scrittura è vivissima; non sta per fortuna in gran salute l’ideologia che circonfonde la “lettera”). Ad ogni modo, anche grazie ai “nuovi media”, cominciamo a intravedere e comprendere la “precedenza” (in senso storico e cognitivo) delle arti dinamiche/performatiche rispetto alla “letteratura”.

Le arti dinamiche/performatiche tra letteratura e nuovi media. Verso un paradigma post-disciplinare negli studi umanistici

DERIU, Fabrizio
2015-01-01

Abstract

Il saggio parte dalla considerazione di una inesorabile, sebbene forse non imminente, dissoluzione dei confini disciplinari negli studi umanistici; da cui perciò la necessità di costruire un paradigma post-disciplinare. La costellazione concettuale al centro di questo movimento, a mio avviso, ruota attorno alla (controversa) nozione di performance. Circostanza del resto lucidamente intuita da Jon McKenzie, sulla scia di Foucault: «[…] performance will be to the twentieth and twenty-first centuries what discipline was to eighteenth and nineteenth, that is, an onto-historical formation of power and knowledge» (McKenzie 2001. A un intervistatore che osservava che può essere difficile comprendere la differenza tra Performance Studies e Cultural Studies, Richard Schechner (senza resistere alla tentazione di citare Derrida) ha articolato una interessante risposta che non dovrebbe essere ridotta alla dimensione di uno slogan (ma lo faccio): «[…] Cultural Studies is very textually driven, Performance Studies is very behavior driven» (Schechner 2013). Concordo pienamente, ma la differenza non ha alcuna ragione “scientifica” per trasformarsi in contrapposizione (ancora Schechner: «I think that these differences are in the bad sense academic»). Il compito da affrontare, per gli umanisti tutti, oggi è: esplorare il passaggio, nell'apparato del linguaggio, dell'espressione e della conoscenza, dall'oralità (orality) alla scrittura (literacy) e dalla scrittura alla electracy (ho adattato questa frase da una affermazione di Gregory Ulmer, professore presso il dipartimento di inglese dell’Università della Florida, nonché maestro di McKenzie). Electracy, secondo Ulmer, è per i media digitali quello che literacy è (stato) per la scrittura. Se già per literacy la traduzione in italiano non è priva di problemi (“alfabetizzazione” e “scrittura” non ne sono perfetti equivalenti), servirà grande fantasia per trovare/inventare una parola idonea per electracy (proviamo con elettracità?). A proposito: come si traduce performance? Il giovane filologo Nietzsche invitava i filologi (che lo espulsero in aeternum dalla comunità quando pubblicò La nascita della tragedia) ad andare a lezione dagli etnologi; noi non abbiamo prestato sufficiente attenzione all’avviso di McLuhan il quale nel primo capoverso di The Gutenberg Galaxy dice che il suo saggio «è per molti versi complementare al libro di Albert B. Lord, The Singer of Tales» (Lord è stato allievo e collaboratore di Milman Parry, il filologo americano che per primo sostenne la tesi della natura orale e “formulaica” dell’epica omerica). Come ci ha meritoriamente ricordato Gabriele Frasca, nell’era digitale è semmai la “lettera” che muore, non l’“arte del discorso” (ma la prima asserzione non è neppure così vera: la scrittura è vivissima; non sta per fortuna in gran salute l’ideologia che circonfonde la “lettera”). Ad ogni modo, anche grazie ai “nuovi media”, cominciamo a intravedere e comprendere la “precedenza” (in senso storico e cognitivo) delle arti dinamiche/performatiche rispetto alla “letteratura”.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11575/91569
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