Nell’articolo vengono esaminati le modalità dell’esercizio dei diritti della difesa sia del processo canonico di nullità sia di quello italiano di delibazione della sentenza ecclesiastica come presupposto dell’esame della sentenza della Corte dei diritti dell’uomo relativamente alla responsabilità dell’Italia per la delibazione della sentenza stessa.In ordine all’esame del processo canonico “documentale” si sono potute riscontrare taluni ipotesi di violazione dei suoi diritti di difesa, cui avrebbe potuto porre rimedio con la querela nullitatis (per omessa notifica del libello introduttivo di cui per altro non vi è prova certa e per non aver avuto no-tizia delle deposizioni raccolte: di cui però in appello poteva certamente avere notizia), la novae causae propositio (per non aver avuto notizia dell’assunzione di talune deposizioni) o in fine poteva agire presso la Segnatura apostolica chiedendo per le stesse ragioni che non emettesse il decreto ne-cessario per la trasmissione degli atti all’Italia: rimedi tutti cui non ha inteso ricorrere.In ordine all’esame del processo delibazione si è rilevato come le doglianze dell’attrice si fossero incentrate non sulle violazioni delle norme processuali canoniche volte a garantire i diritti della di-fesa ma sul preteso contrasto di tale procedimento con i diritti della difesa che il giudice italiano a-vrebbe dovuto rilevare, doglianze che i giudici hanno potuto facilmente respingere. Si è però pure rilevato che il giudice italiano non ha accolto la richiesta di assunzione degli atti processuali canonici, probabilmente perché i giudici italiani ritennero irrilevanti tali questioni ai fini del decidere. Occorre infatti rammentare la nullità era stata pronunciata per un impedimento di consanguineità non dispensato fatto riconosciuto per vero dalle parti e comprovato da elementi documentali non contestati.Dall’esame della sentenza della Corte dei diritti dell’uomo risulta che ha condannato l’Italia perché questa non avrebbe assicurato, in sede di delibazione, un processo equo. A base di tale condanna vi è l’affermazione che la Pellegrini sarebbe stata chiamata a comparire senza sapere l’oggetto del giudizio (il che risulta dalla stessa sentenza quanto meno inesatto) e di essere stata interrogata prima di sapere quale fosse il contenuto della domanda (fatto certamente errato poiché la stessa sentenza riferisce che il libello le venne mostrato prima di procedere all’interrogatorio), senza sapere che po-teva avvalersi di una difesa tecnica (dalla stessa riconosciuta come possibile sulla base della giuri-sprudenza che evidentemente la parte poteva non conoscere, mentre è prevista per legge e quindi doveva conoscerla) ed ipotizzando che tale ignoranza le avrebbe impedito di avere dei consigli per procrastinare la sentenza, come se funzione di una tale difesa possa essere di tal fatta. Dall’esame della sentenza si è così rilevato che l’unica ragione valida, secondo la giurisprudenza della stessa Corte, riposa sul principio che vi è violazione dei diritti della difesa tutte le volte in cui la parte non è messa a conoscenza di quanto acquisito nel processo anche se irrilevante o risultato ininfluente per la decisione, spettando solo alla parte un tale giudizio: principi questi che però sono in contrasto con principi ben radicati nella nostra tradizione giuridica, e non solo, quali la conservazione degli atti nulli quante volte abbiano conseguito il loro scopo, il rifiuto dell’azione in caso di abuso di diritto, specie quando vi è carenza di interesse etc . problemi tutti che travalicano il caso concreto e che se accolti modificherebbero tutto il nostro sistema giuridico.[...]

I diritti della difesa nella causa Pellegrini-Gigliozzi e loro autonoma rilevanza nella decisione della Corte di Strasburgo

MOSCHELLA, Mario
2004-01-01

Abstract

Nell’articolo vengono esaminati le modalità dell’esercizio dei diritti della difesa sia del processo canonico di nullità sia di quello italiano di delibazione della sentenza ecclesiastica come presupposto dell’esame della sentenza della Corte dei diritti dell’uomo relativamente alla responsabilità dell’Italia per la delibazione della sentenza stessa.In ordine all’esame del processo canonico “documentale” si sono potute riscontrare taluni ipotesi di violazione dei suoi diritti di difesa, cui avrebbe potuto porre rimedio con la querela nullitatis (per omessa notifica del libello introduttivo di cui per altro non vi è prova certa e per non aver avuto no-tizia delle deposizioni raccolte: di cui però in appello poteva certamente avere notizia), la novae causae propositio (per non aver avuto notizia dell’assunzione di talune deposizioni) o in fine poteva agire presso la Segnatura apostolica chiedendo per le stesse ragioni che non emettesse il decreto ne-cessario per la trasmissione degli atti all’Italia: rimedi tutti cui non ha inteso ricorrere.In ordine all’esame del processo delibazione si è rilevato come le doglianze dell’attrice si fossero incentrate non sulle violazioni delle norme processuali canoniche volte a garantire i diritti della di-fesa ma sul preteso contrasto di tale procedimento con i diritti della difesa che il giudice italiano a-vrebbe dovuto rilevare, doglianze che i giudici hanno potuto facilmente respingere. Si è però pure rilevato che il giudice italiano non ha accolto la richiesta di assunzione degli atti processuali canonici, probabilmente perché i giudici italiani ritennero irrilevanti tali questioni ai fini del decidere. Occorre infatti rammentare la nullità era stata pronunciata per un impedimento di consanguineità non dispensato fatto riconosciuto per vero dalle parti e comprovato da elementi documentali non contestati.Dall’esame della sentenza della Corte dei diritti dell’uomo risulta che ha condannato l’Italia perché questa non avrebbe assicurato, in sede di delibazione, un processo equo. A base di tale condanna vi è l’affermazione che la Pellegrini sarebbe stata chiamata a comparire senza sapere l’oggetto del giudizio (il che risulta dalla stessa sentenza quanto meno inesatto) e di essere stata interrogata prima di sapere quale fosse il contenuto della domanda (fatto certamente errato poiché la stessa sentenza riferisce che il libello le venne mostrato prima di procedere all’interrogatorio), senza sapere che po-teva avvalersi di una difesa tecnica (dalla stessa riconosciuta come possibile sulla base della giuri-sprudenza che evidentemente la parte poteva non conoscere, mentre è prevista per legge e quindi doveva conoscerla) ed ipotizzando che tale ignoranza le avrebbe impedito di avere dei consigli per procrastinare la sentenza, come se funzione di una tale difesa possa essere di tal fatta. Dall’esame della sentenza si è così rilevato che l’unica ragione valida, secondo la giurisprudenza della stessa Corte, riposa sul principio che vi è violazione dei diritti della difesa tutte le volte in cui la parte non è messa a conoscenza di quanto acquisito nel processo anche se irrilevante o risultato ininfluente per la decisione, spettando solo alla parte un tale giudizio: principi questi che però sono in contrasto con principi ben radicati nella nostra tradizione giuridica, e non solo, quali la conservazione degli atti nulli quante volte abbiano conseguito il loro scopo, il rifiuto dell’azione in caso di abuso di diritto, specie quando vi è carenza di interesse etc . problemi tutti che travalicano il caso concreto e che se accolti modificherebbero tutto il nostro sistema giuridico.[...]
2004
88-14-11087-5
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11575/7650
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